ZITA MOSCA BALDESSARI
Zita Mosca Baldessari – Teresa solo per l’anagrafe – è nata a Milano il 26 giugno 1934 in una bella casa di via Piolti de Bianchi, costruita da suo padre all’inizio del Novecento; in quella stessa casa è mancata il 15 novembre 2021.
Nata in una famiglia della buona borghesia milanese, e tuttavia libera da qualunque snobismo, è molto legata ai genitori: il padre Giuseppe, ingegnere, e la madre Elena, “la Mutti”. Fin da bambina innamorata dell’arte, studia dapprima presso le Orsoline, poi al liceo artistico di Brera. Allieva della Facoltà di Architettura del Politecnico, si laurea all’École Polytechnique di Losanna.
Negli anni dell’università Zita inizia a sfilare come modella, o mannequin, come amava dire con un guizzo di ironia: alta, sottile, con un viso regolare e grandi occhi chiari, era perfetta per indossare i tailleur “architettonici” dei primi anni Sessanta, i pezzi unici prodotti dalle grandi sartorie milanesi come Enzo in via della Spiga, le stole dei grandi stilisti europei come Saint-Laurent e Dior.
Verso il mondo della moda, che dai primi anni alla Rinascente la porta a sfilare anche all’estero, Zita aveva grande riconoscenza – le aveva permesso di guadagnare bene molto giovane, sostenendo poi lo studio di Baldessari – e anche un sano distacco. Amava i bei vestiti, aveva un buon gusto innegabile e tutto le stava bene (i vicini la ricordano con gli immancabili guanti e cappello anche in pieno agosto); ma aveva un gusto anticonformista. Non solo tacchi a spillo e giacche a uovo di Balmain: anzi, il suo stile era piuttosto androgino.
Per questo ci siamo stupite quando abbiamo trovato, fra i documenti di Zita, le sue foto da modella: ne esce una donna misteriosa, a tratti femme fatale, molto diversa dalla donna ironica e per niente autocompiaciuta che abbiamo conosciuto; quella che nel 1966 non ha esitato un attimo ad andare a Firenze, allagata dalla piena dell’Arno, per salvare manoscritti e opere d’arte antica .
Zita conosce Luciano Baldessari (“Archi”) nel 1967, quando il Maestro, quasi settantenne, cercava un giovane architetto che ridisegnasse il progetto della Cappella Santa Lucia a Caravate (VA) per un volume monografico.
Se analizziamo l’archivio dei progetti di Baldessari, ci accorgiamo che a partire dalla fine degli anni Cinquanta i lavori vanno diradandosi: uno iato di alcuni anni separa la mostra di Romanino al Duomo Vecchio di Brescia (1965) dalla mostra della Collezione Lercaro a Villa San Giacomo a Bologna (1970). È proprio nella mostra del 1970 che per la prima volta Zita compare come collaboratrice di Archi, rilanciandone lo studio, che aveva subito una battuta d’arresto dovuta anche a vicende personali.
In un’intervista del 2020, così Zita racconta l’incontro con Archi: “La prima volta che mi presentai avevo il trucco – perché all’epoca facevo fotografie di moda – il borsone con le scarpe e due rotoli dall’altra parte dentro un tubo per mostrargli come lavoravo.” Baldessari si scandalizzava vedendola arrivare in cantiere con elegantissimi completi di Dior: ma non è difficile immaginare che ne fosse, al tempo stesso, divertito.
Zita entra a lavorare stabilmente nello studio di corso di Porta Romana 6, unica fra i numerosi architetti che si erano candidati per quel lavoro. Va a vivere con Archi, gli sta a fianco, spalanca la porta di casa ai tanti amici, e soprattutto progetta e cura da subito l’archiviazione scientifica dei documenti di studio, comprendendo subito l’importanza della loro tutela. I quasi quarant’anni di differenza non hanno alcun peso in questa coppia atipica, anticonformista, unita dalla passione per l’architettura, dal gusto sicuro, e dal piacere della convivialità. Fra i tanti amici di questi anni ricordiamo Lucio e Rosita Fontana, Raffaello Giolli e Rosa Menni Giolli, Franco Russoli, Umberto Milani, Attilio Rossi, Enrico Crispolti, Guido Ballo e molti altri.
Dal ‘67 risulta difficile, se non addirittura impossibile, distinguere il lavoro dell’uno e dell’altra. Il sodalizio professionale tra i due architetti è molto intenso: Baldessari schizza la sua idea progettuali con pochi velocissimi tratti su carta; Zita, da parte sua, rilegge l’idea, la comprende al volo e la riconduceva al tratto rigoroso del disegno tecnico, con una rilettura intelligente dell’idea del maestro. Purtroppo Zita non firma i progetti, nemmeno quelli che successivamente rivendica come suoi, fra cui la mostra di Lucio Fontana allestita a Palazzo Reale nel 1972.
La scelta di lavorare in squadra rende difficile un’esegesi puntuale che permetta di distinguere gli apporti specifici dei due architetti. Zita però non si è mai sentita schiacciata da Baldessari, e anzi, giustamente, si risentiva molto quando veniva definita “la compagna di”, o peggio “la moglie di”: “C’è sempre stata una gran stima quando si parlava di fare architettura. Sono stata sostenuta in modo incredibile da Baldessari”.
Più volte sollecitata, Zita non ha mai voluto distinguere i suoi progetti da quelli del Maestro né metterci a parte dei progetti da lei curati dopo la morte del compagno, avvenuta nel 1982. Sappiamo da pochi accenni che dopo quella data sicuramente lavora ancora a edifici di carattere commerciale ed a residenze private in Italia e in Svizzera, dove ha contatti e amici (in particolare Villa Leoni presso Locarno). Ma questo è un capitolo che solo lo studio dell’archivio personale di Zita, finora rimasto chiuso nei cassetti, potrà raccontare.
Desiderato e progettato fin dal ‘68, il CASVA-Centro di Alti Studi sulle Arti Visive del Comune di Milano prende forma nel 1999 grazie alla collaborazione di Zita Mosca con Alessandra Mottola Molfino. Qui vanno gli schizzi e le scenografie di Baldessari, mentre già in precedenza i disegni tecnici erano confluiti nei fondi del Politecnico di Milano, e la corrispondenza negli archivi del MART di Rovereto. I fondi di Baldessari presso queste istituzioni possono essere consultati cliccando sul link sottostante.